Negli ultimi giorni c’è un grande dibattito sul lancio di vernice che ha investito la statua di Indro Montanelli nei giardini a lui intitolati a Milano.
Non voglio entrare nel merito della questione etica: su questo terreno è vero tutto e il contrario di tutto, perché è un piano strettamente personale e, quindi, oggettivamente incontestabile. Insomma, ognuno segue i valori che sente propri e li deroga in base ai propri principi etici e morali.
Due buoni motivi per non continuare a leggere
Leggendo questo articolo vi imbatterete in un linguaggio crudo e diretto. Non voglio offendere nessuno, semplicemente credo che le parole siano importanti. Servono per definire propriamente e riconoscere quello che è successo, senza usare formule per ingentilire o camuffare una realtà che è cruda e violenta. Vi chiedo scusa in anticipo, per i termini disturbanti e le descrizioni troppo crude o taglienti. Li uso perché non temo né di ferire la protagonista di questa storia né di offendere un uomo che aveva fatto delle parole la sua vita. È importante che la comunicazione sia diretta, che la luce sia forte perché si riescano a vedere anche le ombre.
Inoltre, per sgombrare il campo da qualunque incomprensione, vi anticipo i miei valori ed il mio punto di vista. Per quel che mi riguarda, non c’è nulla da contestualizzare nell’azione di Montanelli: un uomo bianco di venticinque anni che compra una dodicenne africana per stuprarla non deve fare i conti con il contesto storico o con le usanze di un’Africa vista con la lente coloniale.

Un uomo bianco di venticinque anni che compra una bambina africana per avere rapporti sessuali con lei deve fare i conti solo con la propria coscienza, ovvero con i suoi valori di uomo bianco europeo.
Se in quel momento in Eritrea le bambine venivano date in sposa a dodici anni, in Italia non era certo così, quindi quando Montanelli (o qualunque altro uomo bianco) ha abusato di una bambina lo ha fatto a titolo meramente personale. La storia, il contesto sociale, le usanze africane non hanno alcuna responsabilità: essa è – e sempre dev’essere – personale.
La questione razziale, che è un ingombrante elefante nella stanza, non è un’attenuante, semmai un’aggravante perché la pelle bianca non impedisce di provare empatia per gli altri esseri umani. E quindi, se Montanelli ha considerato una bambina africana un “animalino docile” lo ha fatto solo perché era razzista e non perché in quel momento tutti pensavano che i “negri” fossero esseri inferiori. Diversamente non si spiegherebbe perché non tutti i soldati furono stupratori di bambine o non tutti i civili fossero – in Patria – fascisti convinti. Invece in Italia c’erano i partigiani e, sicuramente, in Eritrea c’erano soldati non pedofili.
Destà: una narrazione maschile e singolare
Ora che vi ho indicato le coordinate in cui si muove il mio pensiero (e che non discuterò oltre), quello che mi interessa mettere a fuoco è come siano state comunicate la vicenda del “matrimonio” e quella della vernice.
Indro Montanelli non è certo il primo personaggio pubblico ad avere degli scomodi scheletri nell’armadio della propria vita privata. Louis-Ferdinand Celine era un fiero antisemita, Woody Allen ha sposato la figliastra appena maggiorenne Soon-Yi, Roman Polansky ha stuprato la tredicenne Samantha Geimer e così via. La cosa inquietante, però, è che in tutti i casi si parla sempre e solo degli “accusati” e mai delle loro vittime (o presunte tali).
Finora, per scelta, non ho mai nominato la sfortunata bambina eritrea, ma ovviamente aveva un nome: si chiamava Destà. Non sappiamo molto di lei, se non quello che ci ha mostrato il cono di luce di Montanelli: aveva 12 anni, la famiglia l’aveva venduta a lui per 500 lire insieme ad un fucile ed un cavallo, puzzava di sterco di capra ed era infibulata. Quest’ultimo particolare – così intimo – ci è noto solo perché Montanelli ha raccontato quanto fosse stato difficile stuprarla la prima volta, al punto che fu costretto a chiedere aiuto alla madre della piccola, che con un paio di forbici tagliò la sutura dei suoi genitali per permettere al prode soldato di approfittare di lei. E Montanelli ebbe anche a meravigliarsi del fatto che lei fosse immobile e assolutamente insensibile. Sappiamo anche che lo seguiva dovunque andasse, insieme alle altre “mogli” della banda di àscari (ovvero di soldati eritrei) che lui comandava, che gli portava una cesta di biancheria pulita, faceva il suo “servizio” e andava via, fino all’incontro successivo, che si svolgeva con le stesse modalità.

Sappiamo anche che Montanelli l’aveva poi regalata ad un altro soldato italiano e che, in seguito, Destà era stata data in sposa ad un altro militare ancora, questa volta africano, con cui aveva avuto tre figli, ed aveva chiamato il primogenito Indro.
Ovviamente, nulla di ciò che sappiamo è stato mai detto da Destà e nemmeno sappiamo che fine abbia fatto una volta uscita dalla vista di Montanelli. Stiamo parlando quasi di un secolo fa, di una bambina che non aveva nessun diritto se non quello di essere proprietà di qualcuno, di fare figli, pulire e seguire il suo padrone dovunque lui volesse.
Come appare ciò che emerge da questa narrazione unilaterale ai nostri occhi evoluti di europei colti? Sui media si parla di vicenda controversa, concubinato, matrimonio, obbligo militare, adeguamento ai costumi locali.
Ma di tutti gli articoli dedicati alla vicenda, nessuno si è concentrato sulla condizione femminile in Eritrea negli anni Trenta del Novecento e su come Destà sia finita nelle mani di un uomo bianco di venticinque anni perché ne abusasse.
E invece, cosa sappiamo di Montanelli? Praticamente tutto quello che riguarda la sua lunga vita. Era un valente giornalista e scrittore, noto per la sua penna, la sua verve polemica e la sua attitudine alla provocazione. Fascista e poi antifascista, ma non amato da nessuno dei due schieramenti, gambizzato dalle Brigate Rosse, fondatore de Il Giornale e poi – quando il contrasto con l’editore Silvio Berlusconi divenne insanabile – de La Voce. La biografia di Montanelli sul sito della Fondazione che prende il suo nome non riporta nulla della sua vita insieme a Destà, ma in compenso ne parla in un articolo, in cui sostanzialmente giustifica l’acquisto della ragazzina come un’usanza dei tempi, addirittura sollecitata dal responsabile del battaglione guidato da Montanelli.
Insomma, Destà era stata una specie di parentesi, di errore di gioventù indotto dalle circostanze storiche o da un obbligo militare. La sua esistenza sarebbe probabilmente sparita nell’oblio della guerra coloniale, insieme a tante altre, se non fosse stato per la partecipazione di Montanelli alla trasmissione di Gianni Bisiach “L’ora della verità” nel 1969. Proprio in quell’occasione a Montanelli viene contestato il suo comportamento dalla giornalista Elvira Banotti, che in pratica lo lascia senza parole.
In seguito, Montanelli parla di Destà sul Corriere della Sera. L’articolo è presentato come la risposta alla lettera di una diciottenne, cui il giornalista non risparmia un tono paternalistico ed una chiusura estremamente acida (se ti ho scandalizzato è colpa tua). In questa versione, Destà ha 14 anni. Ed infine, durante un’intervista con Enzo Biagi, di nuovo Montanelli racconta la sua storia, cambiando alcune informazioni come il nome della ragazzina, che diventa Fatima, e la sua età, che sale di nuovo a quattordici anni. Il tono della narrazione, però, resta identico.

Insomma, Montanelli non ha mai messo in discussione le sue azioni, né tanto meno le ha mai considerate sbagliate, dannose od offensive. Si è, anzi, gloriato di essere passato a trovare la dodicenne che aveva violentemente deflorato, anni dopo, durante un suo viaggio in Africa, proiettando la propria fantasia di paternità su quel bambino che aveva il suo nome (ma che era stato concepito dopo che lui aveva magnanimamente regalato sua madre ad un altro uomo).
Se questo è uno stupro: storia di una statua e della vernice che la imbratta ad intervalli irregolari
Nel 2006, in barba a tutte le norme sulla toponomastica, che prevedono un’attesa di almeno dieci anni prima di intitolare luoghi pubblici ai trapassati, a Montanelli (che è morto nel 2001) vengono intitolati i Giardini Pubblici di Porta Venezia a Milano, con tanto di statua che lo raffigura mentre scrive un articolo con la celebre macchina da scrivere portatile Lettera 22.

L’8 marzo 2019 sulla scultura viene colata della vernice rosa. L’azione viene rivendicata dal collettivo di Non Una DI Meno, attivamente impegnato contro le violenze sulle donne, come atto di riappropriazione della narrazione.
Il 13 giugno del 2020 la vernice è rossa e viene versata sulla scultura da un collettivo di studenti, che dichiara di voler aprire un dibattito sull’opportunità della sua collocazione. E, per chiarire ulteriormente il concetto, sul basamento vengono scritte le parole “razzista” e “stupratore”.

L’atto segue una richiesta del gruppo dei Sentinelli di Milano, attivo contro fascismo ed omo-lesbo-trans-fobia, con una lettera indirizzata al sindaco di Milano Giuseppe Sala, sull’onda delle manifestazioni antirazziste scoppiate in tutto il mondo al grido di Black Lives Matters, dopo l’uccisione a Minneapolis del quarantasettenne George Floyd.
Ogni volta che la statua subisce un attacco, si levano scudi da una parte e dall’altra, tra chi difende i contestatori e chi il diritto a celebrare il giornalista con una scultura. La narrazione è più o meno sempre la stessa: Indro Montanelli intellettuale contro Indro Montanelli colonialista, con relativa contrapposizione stupro/non stupro.
La narrazione continua con la sperequazione su quanto sia giusto giudicare con occhi contemporanei vicende che sono ormai storia, spingendo sul pedale del paradosso: se abbattiamo la statua di un uomo morto nel 2001 perché oltre ad essere un grande giornalista è stato anche un pedofilo (e lo era anche in base ai valori ed alle leggi dei suoi tempi) allora perché non abbattere le piramidi o il Colosseo per le offese che la loro costruzione ha arrecato a uomini e donne morti centinaia di anni fa?
Sul piano della comunicazione, il dibattito è sempre uguale: da un lato i detrattori di Montanelli, dall’altro i suoi sostenitori, entrambi perfettamente allineati nel considerare solo ed unicamente la figura del giornalista, l’unica ad avere una voce. In un mondo perfetto, l’unica a poter dire se quella statua è offensiva oppure no dovrebbe essere Destà. Ma la piccola è persa nel tempo. E allora, chi può giudicare se una statua è offensiva oppure no?
Ovviamente, spetta a noi prendere questa decisione. Ma, prima di farlo, è necessario che riconosciamo una narrazione femminile e plurale. Cioè la voce di chi ha subito il colonialismo, addentrandoci negli studi post coloniali, nella narrazione dell’Africa fatta dagli Africani, leggendo le storie delle Destà che, oggi come ieri, hanno pagato il costo più alto del colonialismo.
Lo ha fatto, in questo frangente, lo street artist Ozmo che, sempre a Milano (in Via Torino), ha ritratto Destà su un piedistallo monumentale, rispondendo così all’invito lanciato il 9 giugno scorso dalla scrittrice italosomala Igiaba Scego sulle pagine di Internazionale a dedicare “una statua, un disegno, un ricordo a quella bambina lontana“.

Riconoscere che un intellettuale, un artista, un regista, un attore possano essere degli ottimi intellettuali, artisti, registi ed attori e allo stesso tempo delle persone orribili, degli stupratori o dei pedofili non significa dover censurare o disprezzare le loro opere, significa però evitare di celebrarli o indicarli come modelli ergendo loro delle statue che ignorano deliberatamente le azioni od i valori turpi a cui hanno improntato la loro vita.

Per usare un parallelo che esula dalla vicenda di Montanelli e Destà, se un africano americano considera offensivo un tributo a Edward Colston, che fu il più grande mercanti di schiavi di Bristol, può un americano WASP dirgli che non ne ha il pieno diritto? Se un Sudafricano nero si sente offeso dalla celebrazione di Cecil Rhodes può un Sudafricano bianco dirgli che sta esagerando? O può farlo un Europeo che non ha vissuto sulla sua pelle l’apartheid?

La scultura è stata abbattuta e gettata nel fiume durante le proteste per l’omicidio di George Floyd
È difficile liberarsi dal bias di un occidente coloniale che non ha mai smesso di considerare l’Africa terra di conquista e gli Africani poco più di “docili animalini”. Ma occorre provarci, sempre e con fermezza perché nulla è stato fatto per Destà, ma molto c’è ancora da fare tutte le Destà che oggi, qui ed ora, devono essere riconosciute come individui.
Se siete arrivati fin qui…
…E avete guardato il video dell’intervista, avete visto Indro Montanelli raccontare come abbia acquistato la bambina da suo padre, letto di come abbia chiesto a sua madre di lacerarla per poterne abusare con facilità e come l’abbia donata ad un altro uomo a cui dare dei figli.
Fissate quel racconto nella vostra mente, ma dal punto di vista di Lei. Immaginate Destà, con i suoi dodici anni, la sua paura, la rassegnazione con cui ha accettato il tradimento dei suoi genitori e la sua vita al servizio dell’uomo bianco che l’aveva comprata. Forse riuscite a vederla nella vostra mente, mentre giace dolorante nel letto del suo “marito” bianco, mentre gli lava la biancheria e la sistema nella cesta con cui percorrerà a piedi chilometri per raggiungerlo e portargliela. La vedete? Bene. Ed ora: immaginate che sia bianca.