Il 25 novembre del 1970, all’età di 45 anni, Yukio Mishima – all’epoca il più noto scrittore e drammaturgo giapponese – asserragliato con un pugno di seguaci in una caserma di Tokyo, pone fine alla propria vita tramite seppuku, ovvero il suicidio rituale. Dopo aver dato il suo ultimo esaltato discorso a una nutrita folla di militari, uno dei più controversi e scandalosi scrittori del Novecento, decide di uscire così di scena. In quel suo ultimo discorso vi fu l’esaltazione del Giappone glorioso delle tradizioni, nonché l’inappellabile condanna della nuova costituzione, quella del ’47, che voleva farne un paese “normale” e succube del conformismo democratico.

Mishima nel suo studio, i libri e la katana
Il Giappone che il Padiglione d’Oro (Kinkakuji), alle porte della città imperiale di Kyoto, aveva rappresentato a lungo, sin dalla sua costruzione nel quattordicesimo secolo; fino alla sua distruzione nel 1950 per mano di un piromane. Quel luogo di culto, gioiello dell’arte religiosa, è descritto con accenti onirici (e, a momenti, è un piccolo trattato d’architettura); è il principale oggetto d’ammirazione di un giovane monaco zen, Mizoguchi, a sua volta figlio di un abate buddhista, nel periodo della sua formazione. Ispirato da un fatto di cronaca, Mishima ricostruisce la storia di iniziazione dell’allievo e ne scandaglia le ben poco edificanti considerazioni su se stesso e di ciò che lo circonda.
Quanta bellezza distrutta dalla guerra
“Simile ad una luna sospesa in un cielo notturno, il Padiglione d’oro era stato costruito quasi a simbolo d’un’epoca fosca e tetra: era dunque inevitabile che il Padiglione dei miei sogni fosse circondato da ogni parte dall’oscurità, la costruzione dai bei pilastri snelli stava silenziosa e salda , sprigionando una vaga luce dall’interno. Qualunque fosse il giudizio degli uomini, il Padiglione d’Oro doveva continuare a mostrare la sua raffinata struttura sopportando in silenzio le tenebre che lo circondavano.”
In principio l’ammirazione per il tempio simbolo di luce da parte del giovane era sconfinata, poi la luce irradiata da esso diviene via via qualcosa di sempre più irraggiungibile, ineguagliabile; con il procedere della storia, tra stenti, deformità, precetti da seguire sempre più astrusi, quella luce non sembra avere alcunché di salvifico. L’amore è invisibile, la donna è un corpo abusato. La fuga è impossibile.
Il segno lasciato dalla guerra perduta è un solco profondo. In questo solco, in questa ferita, si dibatte, pericolosamente in bilico sul baratro dell’abiezione, il piccolo prete balbuziente. La menomazione lo accomuna a tutti i nichilisti che si aggirano nei paraggi della scuola. Come Kashiwagi, apparentemente più sicuro di sé, ma pur sempre in bilico e soprattutto cattivo maestro, col suo ego spropositato. L’erotismo come l’indifferenza per il dolore sono la lente di una malata esperienza del mondo. Come Mishima, Mizoguchi è ossessionato dall’idea della bellezza inafferrabile; anche lui vuole compiere l’estremo gesto rituale, non prima però di aver appiccato l’incendio. Ma mentre lo scrittore lo compie come atto di estremo rifiuto di un futuro che non ha più nulla del mito, è proprio quel mito che il piccolo Mizoguchi vuol distruggere: la bellezza di un tempio, con la quale non potrà mai competere. Gli esiti non potranno che essere divergenti.
Il Mishima guerriero
Pubblicato a Tokyo nel 1959, e poi in Italia nel 1962 da Giangiacomo Feltrinelli, questo testo appartiene a un’epoca in cui le cose in Giappone e per l’autore sono in profonda e drammatica evoluzione. Evitiamo qui le interpretazioni politiche della sua opera e dei suoi atti. Se stiamo alla lettura del Mishima guerriero e paladino della tradizione distrutta dalle bombe incendiarie e dalla cultura dei vincitori, in questo testo sono racchiusi – potremmo dire al “modo di Dostoevskij” – le elaborazioni criminogene di un giovane deviato. In questa ottica la figura di Mizoguchi non può che rappresentare l’incarnazione di un eroismo tragico ed estremamente negativo. Egli non può che rappresentare, in altre parole, il giapponese nuovo e la sconfitta finale. Contro tutto questo il “guerriero” non ha altra scelta che celebrare la propria uscita dalla storia.